L’ultima volta che ho visto David Bowie, per molti versi la rockstar per eccellenza della mia generazione, morto nel 2016, lo stavo tradendo con un altro artista pop. Eravamo su un tetto a New York, nel quartiere di Williamsburg. Quella sera di fine primavera del 2006, giornalisti, musicisti e altri personaggi si erano riuniti per assistere a un breve live set dei TV on the Radio tratto dal loro secondo album, l’eclettico e accattivante Return to Cookie Mountain. Mi ero innamorato del cantante del gruppo, Tunde Adebimpe, un tipo occhialuto, con la voce inconfondibile e i modi dolci. A volte Adebimpe sembra un sergente istruttore strafatto, altre un ragazzino che si affaccia all’adolescenza. Come Bowie, è quello che io definisco un cantante camaleontico, capace di cambiare voce in base al protagonista della canzone. Quella sera il gruppo si esibì in un’ottima performance e quando staccavo lo sguardo da Adebimpe, lo spostavo su Bowie. In piedi in mezzo alla folla, con una birra in mano, l’allora cinquantanovenne star si muoveva agile ed elegante al ritmo della musica. Era marito e padre per la seconda volta, ma l’età non aveva affievolito il suo manifesto entusiasmo per il nuovo, soprattutto se destabilizzante e genuino, come i TV on the Radio.
Dopo avere ascoltato il primo EP della band, Bowie chiamò uno dei chitarristi, Dave Sitek, per dirgli che era un suo fan, e quando Sitek gli rispose d’istinto invitandolo a partecipare al secondo album del gruppo, Bowie accettò. I suoi interventi nella canzone Province, contenuta in Return to Cookie Mountain, risuonano rotondi, esausti e vivi, tra le cose migliori che l’artista ci ha regalato nella parte finale della sua carriera. Funzionano bene all’interno del nervoso stile trance del gruppo, ma trasmettono anche la profondità dell’esperienza di Bowie come vocalist e la sua volontà – il suo desiderio – di collaborare con musicisti meno conosciuti. Gli artisti di successo sono più spesso preoccupati di mantenere e accrescere la propria fama che di condividerla. Ma, come Prince e Linda Ronstadt, artisti che hanno usato il loro enorme fascino per promuoverne altri con minore visibilità – di solito donne o non bianchi –, anche Bowie ha spesso cercato artisti che, per un motivo o per l’altro, erano outsider come lui, ma non avevano il suo intuito e genio nel leggere le situazioni, cogliere l’umore del pubblico e riuscire a capitalizzarlo. E quando si trattava di criticare un’industria che non dava a tutti gli artisti le stesse opportunità, non si tirava mai indietro. Nel 1983, denunciò Mtv rea di non trasmettere artisti neri, in un’epoca in cui quasi a nessuno importava della diversità.
A Bowie importava. Ma il suo amore per gli spiriti ribelli, i suoi impulsi collaborativi, il suo istinto paterno – il tutto avvolto nella sua esibita personale bizzarria – risultano un po’ sottotono nel nuovo documentario di Brett Morgen, Moonage Daydream, che invece satura lo schermo con un’esplosione visiva. Morgen ha fiuto per tante cose, ma la moderazione e la delicatezza non sono tra queste. Ho amato il suo documentario del 2002 sul produttore cinematografico Robert Evans, The Kid Stays in the Picture, non solo per l’uso accorto e intelligente di effetti visivi e filmati d’archivio, ma anche per la sua capacità di comprendere – aiutato senza dubbio dall’autobiografia di Evans del 1994 – che la Hollywood evocata, quella che non aveva ancora conosciuti i grandiosi successi commerciali, si muoveva in una cornice di glamour, squallore e bugie. Ma in Moonage Daydream questa lettura si annacqua, si smarrisce. Com’è possibile realizzare un documentario su una star che ha dominato il mondo del rock-and-roll per oltre due decenni (equivalenti più o meno a un secolo nel mondo normale) e non accennare ai camerini sporchi, ai dissapori con le case discografiche, alle lamentele degli altri componenti della band o alla costante solitudine, ovvero, cancellare la realtà con cui Bowie ha dovuto fare i conti? Morgen preferisce offrici invece una sorta di ritratto intellettuale santificato: Bowie come Mosè, con i suoi comandamenti sull’arte. Le dichiarazioni di Bowie su Nietzsche e sul buddismo, non mitigate dal suo fascino sornione, risultano non solo pretenziose ma anche opprimenti. Al pari di Evans, Bowie era un uomo di spettacolo consumato, ma, tranne che in alcuni vecchi filmati d’archivio, Morgen non ce lo mostra quasi mai in azione.
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